‘Legge 104’, ecco quando vi è abuso dei ‘permessi’
Sanzionabile l’utilizzi di tali ‘permessi’ per fini diversi dall’assistenza in senso ampio in favore del familiare, cioè in difformità dalle modalità richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è previsto

Si configura abuso del diritto del lavoratore dipendente – pubblico o privato – ai ‘permessi’ mensili retribuiti, come da ‘legge 104’, per l’assistenza a persona con disabilità in situazione di gravità, qualora egli utilizzi tali ‘permessi’ per fini diversi dall’assistenza in senso ampio in favore del familiare, cioè in difformità dalle modalità richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è previsto. Tale comportamento integra violazione dei principi di correttezza e buonafede nei confronti del datore di lavoro e dell’ente previdenziale, costituendo giusta causa di licenziamento.
Questa la secca posizione assunta dai giudici (ordinanza numero 6970 del 14 marzo 2025 della Cassazione), i quali hanno, perciò, sancito in via definitiva il licenziamento di un operaio beccato, grazie all’operato di una agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro, durante la fruizione di tre giorni di ‘permesso’ – nei quali avrebbe dovuto essere impegnato in turni lavorativi di otto ore –, a dedicare all’assistenza della nonna disabile al massimo dieci ore di tempo complessive, per svolgere di contro incombenze varie.
In sostanza, poiché più della metà del tempo sottratto al datore di lavoro non era stato impiegato per assolvere al ruolo assistenziale (svolto invece dalla madre del lavoratore), tale comportamento viene qualificato come integrante ipotesi di abuso del diritto e sviamento dell’intervento assistenziale, e costituente giusta causa di licenziamento.
Chiaro, normativa alla mano, il quadro: il lavoratore dipendente, pubblico o privato, ha diritto a fruire di tre giorni di ‘permesso’ mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa, per assistere una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un’unione civile, convivente di fatto, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i 65 anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità.
Fermo restando il limite complessivo di tre giorni, per l’assistenza allo stesso individuo con disabilità in situazione di gravità, il diritto può essere riconosciuto, su richiesta, a più soggetti, che possono fruirne in via alternativa tra loro. Il lavoratore ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone con disabilità in situazione di gravità, a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un’unione civile o del convivente di fatto o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Alla precisione della norma nell’individuare le situazioni assistenziali sul piano soggettivo non corrisponde, però, alcuna esplicitazione normativa dei contenuti dell’assistenza che possa o debba essere riservata alla persona con disabilità da parte del lavoratore che eserciti il diritto. I giudici sono orientati ad affermare che elemento essenziale è l’esistenza di un diretto nesso causale tra la fruizione del ‘permesso’ e l’assistenza alla persona disabile, e tale nesso causale va inteso non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col ‘permesso’, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile, senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all’assistenza in relazione all’orario di lavoro.
Ragionando in questa ottica, quindi, il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al ‘permesso’ ex lege 104, se ne avvalga non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buonafede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell’ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità e uno sviamento dell’intervento assistenziale. Ciò anche per il disvalore sociale connesso a tali condotte abusive, stante che i ‘permessi’ sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi, comunque con necessità di diversa organizzazione del lavoro in azienda e di sostituzioni. Né il ‘permesso’, riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza al disabile, rispetto alla quale l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, può essere utilizzato in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza: ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buonafede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari. Entro tale perimetro funzionale, l’abuso va a configurarsi quando il lavoratore utilizzi i ‘permessi’ per fini diversi dall’assistenza, da intendersi in senso ampio, in favore del familiare.